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La vita social di Gregor Samsa

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Ogni mattina, con gli occhi ancora socchiusi, sdraiato nel letto, Gregor Samsa attendeva la suoneria della sveglia. Subito dopo, con curiosità, apriva la Home di Facebook. Era come se si fosse alzato e avesse aperto la finestra, la sua finestra sul mondo. In quei momenti si sentiva, in modo un po’ infantile, come un uomo di un altro tempo. Un uomo che, grazie a una buona rendita finanziaria, poteva permettersi di trascorrere la mattina leggendo i giornali durante colazione, invece di dover arrancare lavorando. Passava così quei pochi momenti quasi onirici sbirciando la vetrina di Facebook, la quale, sebbene fosse certamente dotata di un vetro deformante, come gli specchi delle fiere di paese, volendo poteva essere intesa anche come una lente, un apparecchio ottico utile a ingrandire ciò che interessava e – per fortuna! – a rimpicciolire quanto era invece trascurabile e noioso. Nella home di Gregor Samsa apparivano relativamente poche persone fisiche, solo gli amici, e chi davvero se ne era dimostrato meritevole, mentre spopolavano le testate, le newsletter, le pagine e i gruppi, ovvero l’informazione, al livello migliore che era riuscito a ottenere. Una selezione durata oltre dieci anni, il tempo che gli era stato necessario per costruire un wall che non lo deludesse quasi mai.

Ciò che avvenne quella mattina, quindi, fu per lui come una doccia fredda, e l’inizio di una persecuzione. Appena il dito si fu posizionato sull’icona blu con la F maiuscola, davanti ai suoi occhi apparve la scritta: “Il tuo profilo è stato sospeso per 72 ore. Hai pubblicato materiale che non rispetta i nostri standard …”, proseguendo con questo tono per alcune frasi, che la sua memoria non poté trattenere poiché colpita dall’evento. Gregor Samsa rimase senza parole. Per colpa o per merito della sua razionalità sempre molto poco flessibile, nel corso degli anni aveva imparato a essere particolarmente attento a non pubblicare nulla che fosse fraintendibile o ambiguo, proprio per non scoprire il fianco a segnalazioni, troll e – soprattutto! – dibattiti inutili. Rapidamente controlla le notifiche via e-mail e in un tempo così breve che nemmeno gli permette di metabolizzare la cattiva notizia, scopre ciò che temeva. Durante la notte, verso le tre del mattino, mentre lui dormiva beatamente, qualcuno aveva richiesto la modifica della password e subito dopo aveva postato materiali che avevano fatto scattare gli allarmi di Zuckerberg, di qualsiasi cosa si trattasse. Gli avevano hackerato il profilo, in lui si fece strada questa coscienza. Lo assalì un tremito. La password di Facebook è la stessa dell’e-mail, di Paypal e di Amazon. Merda, si era detto decine di volte che avrebbe dovuto cambiarle. Lo sa che non è stato furbo, ma realizza immediatamente che era troppo tardi per rammaricarsi: doveva agire. Nell’arco di dieci minuti cambia i codici di accesso a tutte le applicazioni coinvolte, inserendo dei doppi controlli con degli One time shot, e avvisando le società coinvolte di quanto era successo. Tutte gli rispondono nell’arco di un paio d’ore. Tutte tranne Facebook. Controlla la movimentazione, compresa quella eventualmente bloccata e sembra che sia tutto regolare. Per maggior sicurezza, Gregor Samsa cambia anche l’antivirus e acquista una piattaforma di mobile security per passare al setaccio le memorie dei suoi dispositivi, alla ricerca di malware e trojan, che puntualmente vengono identificati e rimossi. L’hacker però nel frattempo non si perde d’animo e nel corso dei tre giorni seguenti tenta diverse volte di modificare nuovamente le password. Per sua sfortuna, avendo Gregor Samsa inserito l’autorizzazione manuale con riconoscimento biometrico, lo sconosciuto truffatore viene bloccato a ogni tentativo. Nel poco tempo a disposizione era riuscito però a inserire su Paypal un pagamento ricorrente verso Facebook, di cui Gregor Samsa non sapeva nulla. Così chiede spiegazioni, sia a Paypal sia a Facebook. I primi rispondono che per loro l’inserimento è regolare, poiché è stato attuato con i codici giusti. Facebook non ha mai risposto. Così decide di bloccare i pagamenti, almeno – pensa – qualcuno si lamenterà.

Durante questi giorni di passione, Facebook rimane un monolite muto nel deserto. Quando tenta di accedere, la segnalazione che gli appare al posto della sua home page invita Gregor Samsa a compilare un modulo per ottenere delle maggiori spiegazioni o contestare la decisione, ma questo si rivela impossibile, visto che il modulo stesso è irraggiungibile. Scopre così che la maggior parte dei link inseriti sulle pagine dell’assistenza Facebook è disattivata, oppure utilizzabile solo se si ha un profilo non bloccato, e quindi per lui inutili. I pochi che risultano accessibili, dopo che ha inserito le sue segnalazioni rispondono con un laconico “Grazie! Terremo presente la tua segnalazione”, quando gli è evidente che nessuno leggerà mai le sue lamentele. Per ore e ore percorre affannosamente i labirinti delle pagine e degli approfondimenti del servizio assistenza di Facebook, cercando un modo per chiarire la sua posizione con gli addetti del social network. Tutto inutile. Nessuna reazione. Dopo tre giorni, scadute le 72 ore, la dichiarazione di colpevolezza recitata dal video cambia, e gli comunica come sia stato recepito il suo dissenso (“Non sei d’accordo con la nostra decisione”) e che nell’arco di un giorno o poco più il suo ricorso sarebbe stato analizzato. In un primo momento gli sembra una notizia positiva. Non tardò molto a scoprire che il peggio doveva ancora arrivare. Per Gregor Samsa le sorprese non erano certo finite. Quel giorno gli venne rivelata una realtà spietata, manifestatasi sotto forma di una e-mail rigorosamente anonima, che la fonte dei suoi problemi era un ransomware, ovvero un software che, dopo averti prelevato informazioni e dati dalle memorie, li metteva a disposizione di quei simpaticoni che vanno in giro per la rete minacciando di rivelare chissà quali tuoi segreti al mondo intero se non paghi una cifra. Nel suo caso, Gregor Samsa si sentì piuttosto offeso, visto che l’hacker ricattatore si sarebbe accontentato di 400 USD. Così poco valeva la sua privacy? In ogni caso, per non sbagliare, Gregor Samsa cambiò tutti i codici delle banche, inserendo anche in questo caso i doppi controlli e le verifiche biometriche. Inoltre, enormemente scocciato da questa montagna di questioni ridicole, e, riflettendo su quanto potesse essere frustrante non potergli clonare la carta di credito, non avendone più nemmeno una, si accinse a compilare e inviare alla polizia postale una denuncia per tentata frode on line. Purtroppo, il sito di quest’ultima doveva essere in qualche modo imparentato con quello del servizio assistenza di Facebook, dato che risultò misteriosamente disabilitato e irraggiungibile. Ricercando nelle FAQ è altrove, nel sito della questura e in generale su quelli delle forze dell’ordine, Gregor Samsa scopre che i reati telematici devono essere obbligatoriamente denunciati on line, questo nonostante la pagina intitolata “sito in fase di ristrutturazione” che gli si era presentata cercando di accedervi. È pleonastico affermare che tutto ciò gli pareva kafkiano.

A questo punto Gregor Samsa cambia strategia. Dopo aver abbandonato la difesa di un territorio virtuale che già gli si stava mostrando in tutta la sua fragilità, comincia la sua personale guerriglia. Il suo primo bersaglio è la polizia postale. Dopo aver preparato un breve testo di poche righe in cui raccontava sinteticamente l’accaduto, inizia a postarlo in ogni possibile “sezione commenti” del sito. Una sorta di mail bombing in ambito molto ristretto, solo una decina di invii, in attesa di riscontri. Nel frattempo, utilizza la stessa tecnica nei confronti di Facebook, dove i luoghi in cui depositare i suoi messaggi si rivelano molto più numerosi. Con sua grande sorpresa i feedback che gli giunsero dai diversi settori delle forze dell’ordine furono decisamente variegati, oltre che tristemente incoerenti. Si andava da chi, ringraziando per la segnalazione, gli consigliava di recarsi presso la questura più vicina con tutta la documentazione rigorosamente in cartaceo (ma non si trattava di reati telematici?!?), fino a chi con tono sprezzante riduceva la questione a un phishing massivo che non doveva preoccupare in alcun modo (ma allora perché avevano scritto esplicitamente la sua password nella e-mail con il tentativo di estorsione?!?). Tra i due estremi scoprì con crescente rassegnazione una varietà di formulazioni sul tema “non è di nostra competenza si rivolga a…”.

È proprio vero che il tempo vola quando ci si diverte, pensava Gregor Samsa mentre i giorni trascorrevano e da Facebook e dai suoi uffici collaterali, che lui aveva tempestato di segnalazioni, erano giunti solo commenti evasivi. “Ci spiace che abbia incontrato questa difficoltà…”, “Deve compilare il modulo al link indicato…”, “Siamo rammaricati di doverle segnalare che questo non è l’ufficio competente…”, “La preghiamo di allegarci screenshot delle difficoltà che incontra…”, questo era il registro con cui confrontava, ma ovviamente l’ufficio competente e il modulo corretto erano irraggiungibili e il formato in cui accludere gli allegati richiesti si rivelava metodicamente sbagliato. Gregor Samsa ormai era vittima di una radicata paranoia. La convinzione che si trattasse di un fatto personale si era fatta strada tra i suoi pensieri. Eppure, non poteva non ammettere che l’idea di sé stesso come vittima sacrificale era in fondo solo un modo per nascondere la realtà, un modo per non riconoscere che non si trovava di fronte a un organismo razionale a cui ci si poteva opporre, bensì al puro incommensurabile insensato caos, alla deresponsabilizzazione eretta a principio unico. La finestra sul mondo, da quel meccanismo di comunicazione che aveva creduto essere, aveva svelato il suo volto demoniaco, e gli aveva mostrato come nulla di tutto ciò che divorava e poi rigettava avesse effettivamente senso, e che dieci anni di ricerca potevano essere annullati in attimo, like tears in rain. L’unico valore riconosciuto è quello di chi gestisce il mezzo, di chi comanda il vapore: Facebook stesso, demone allucinato e folle, che declina ban in modo caotico e senza alcun principio, se non quello del suo stesso potere. E difatti, dopo aver realizzato tutto ciò Gregor Samsa fa la sua ultima scoperta. In una pagina secondaria del sempre più labirintico servizio di assistenza trova una notifica a lui esplicitamente dedicata (perché non hanno mandato una e-mail? Nella risposta è il senso di tutto ciò), in cui Facebook, innocente come un bambino, scrive esplicitamente: “Per riattivare l’account ti invitiamo a pagare l’importo di € 20,79”. Non credeva ai suoi occhi, mai in tanti anni aveva sentito di qualcuno a cui Facebook avesse chiesto soldi per riattivare l’account, eppure la scritta era lì, e vi è rimasta anche nei giorni seguenti. Peccato che, in piena coerenza con il caos in cui tutto ciò era accaduto, il pulsante “Paga ora” fosse implacabilmente fuori servizio (“Vi preghiamo di riprovare più tardi”). Stupito e rinvigorito da questa scoperta, Gregor Samsa riprende con rinnovato spirito l’invio di segnalazioni agli uffici più disparati, chiedendo spiegazioni su questa cifra, a titolo di cosa venisse chiesta, e su come si potesse – eventualmente – pagare. In totale fedeltà alla linea di statuario mutismo mantenuta fino a quel momento, Facebook persevera con il suo rigoroso silenzio.

Ormai erano passati 29 giorni, e Facebook lo aveva avvisato, in calce all’ unica schermata di avviso, che il giorno seguente sarebbe stato l’ultimo giorno utile per una contestazione del blocco, dopo di che questo sarebbe stato definitivo. Gregor Samsa, rassegnato, sapeva di aver fatto molto più del necessario per risolvere la situazione. Si chiedeva se davvero sarebbe stato disposto a pagare quanto richiesto, soprattutto senza che questo importo avesse una motivazione plausibile. Si chiedeva soprattutto se, calata l’implacabile ghigliottina del trentesimo giorno, e trovandosi di fronte alla cancellazione di dieci anni di attenzione al mondo, avrebbe avuto senso riattivare un nuovo account che ricominciasse lo stesso lavoro ex novo. Gregor Samsa sapeva che altre volte gli era capitato di vedere cancellata con un colpo di spugna una parte della sua vita, ma ciò che sapeva con altrettanta certezza era anche che mai le cesure sono fini a sé stesse, e che ciò che rinasce dev’essere diverso da ciò che muore, e che quindi non avrebbe mai potuto replicare un’esperienza che – in un modo o nell’altro – era conclusa. In fondo nessuno meglio di lui sapeva cosa fossero le metamorfosi.

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Immagine di copertina:
particolare di un’illustrazione di Robert Crumb tratta da David Zane Mairowitz, Introducing Kafka, Totem Books, 1993.

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